FABRIZIO CLERICI
La perspectiva pingendi di
Pavel Tchelitchew
La perspectiva pingendi di
Pavel Tchelitchew

Fabrizio Clerici • Scritti 1950
Pavel Tchelitchew et Fabrizio Clerici
Frascati, villa Torlonia
Photo by Charles Henri Ford
© Eros Renzetti Archive
Adire dell’arte di Pavel Tchelitchew, la sua posizione tra le espressioni eminenti contemporanee, a parlare della sua figura di uomo, del perpetuo bisogno di incatenare la morfologia fisica e biologica alla scienza delle forme create dalla sensibilità, non potrò essere certo io, né per autorità né per la brevità di questo spazio. Mi è molto difficoltoso scrivere quale sia la sensazione provata nell’osservare i più recenti disegni di Tchelitchew. Ma tanto elevati sono i riferimenti, tanto profonde le osservazioni, così poetiche le sue figure trasfigurate, così nuova l’immagine da lui resa, che a me preme sottolineare quanto viva mi sembri la parentela ideale tra le sue nuove opere con quelle nate dai canoni di una estetica rinascimentale, quasi che l’attuale ricerca di Tchelitchew ne fosse la più affascinante, coerente conclusione.
Si sarà già capito che il Rinascimento a cui alludo è da ricercarsi più nei trattati che non nelle pinacoteche, proprio là dove lo scienziato e l’artista, fatti entità unica, equilibrano la loro ricerca tra geometria e utopia in un clima aureo.
È il Rinascimento cristallino di Fra’ Luca di Borgo, tutto chiuso nell’ermetismo di un dodecaedro stellato; è il rinascimento spaziale di Piero della Francesca percorso in ogni senso da linee il cui ragionato intrico porta a una risultante stupefacente: l’uomo nuovo e senza passione, la figura ideale, astratta, immota, la figura prospettica.
Pavel Tchelitchew
Studio per Phenomena, 1936
china su carta, 270 x 210 mm
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E ancora è il Rinascimento rarefatto dei disegni di Paolo Uccello, delle pagine di Marsilio Ficino quando illustra il moto perfetto, la comparazione delle forme per arrivare all’origine divina della bellezza; e la luce, questa forza a cui fa cenno Savonarola nelle sue Prediche italiane e fiorentine per dire di lei come di un indispensabile coefficiente alla perfezione.
Partendo da tali interessi, e non dal gioco troppe volte oggi arbitrariamente da altri tentato, Tchelitchew arriva al culmine della ricerca con una serie di disegni in cui linea, colore e forma s’identificano nello spazio e con lo spazio, lo circuiscono, lo rivestono, lo rendono visibile, così come il fiato rende viva e palpitante la superficie dell’acqua stagna nella concentrica vibrazione del susseguirsi ondoso.
Abbandonato ogni interesse al racconto, alla «Narrazione» pittorica, al fatto, da anni la sua ossessiva ricerca è per la forma dell’uomo, per il volume che esso occupa.
Ne intende le trasparenze. Sotto la pelle egli indaga il labirinto dei percorsi venosi e arteriosi, il meandro tra osso e cartilagine. Spoglio così di epidermide il volto umano si astrae fatalmente verso un clima, verso la violenta vibrazione di interessi per le profondità. Egli entra nella profondità di un corpo, con una matita fosforescente; lo oltrepassa, quasi vincendo per magia il vincolo del foglio su cui disegna; illumina e questa superficie e l’interno, che a noi non sarebbe dato altrimenti vedere, con il compiacimento stesso di un matematico quando nello spazio delle coordinate ci disegna gli stereoscopici percorsi di una curva. Punto per punto. Così attraverso l’azzurro di una dilatata pupilla c’è dato ancora vedere. Vedere, ad esempio, lo svolgersi del cavernoso astuccio osseo che la contiene o il groviglio delle irradiazioni nervose, ma tutto fatto lieve, come senza peso, affinché il dettaglio spettrale di un solo organo non impedisca chi guarda d’esser padrone, subitamente, del meraviglioso volumetrico assieme. Ma oggi, nel suo attuale lavoro, la radiografia di Tchelitchew passa su un piano in cui la completa astrazione rende anche maggiore, se è possibile, il suo bisogno spaziale. Il sembiante umano sembra vivere per onde di luce, così come la sfera vive per virtù delle sue isofote quando un raggio la colpisce.
Egli ci conduce a quei confini stessi a cui approdarono, con altri mezzi ma con l’identico fine, quegli ingegni a cui sopra ho accennato; e le sue opere, sorte come un rinnovato canone di proporzione, farebbero ancor dire al Pacioli: «Non humane, ma divine negli occhi nostri s’appresentano».
Pavel Tchelitchew
Teste, 1950
26,5 x 21,5 cm
Fabrizio Clerici (1950)
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Fabrizio Clerici, La Perspectiva pingendi di Tchelitchew, catalogo della mostra, Galleria dell’’Obelisco, Roma 1950.