Lasciavamo dietro di noi una città bruciante. La grande città operaia che per  un’intera notte si andava rumorosamente consumando fra il crepitio del fuoco ed il  fragore dei palazzi degli stabilimenti che precipitavano sugli asfalti in una nube rosa  di polvere.

«Non certo ora. Io ti mostrerò il quadro quando saremo lontani da qui. Allora vedrai lei dipinta dalle sue stesse mani, la conoscerai», mi disse l’amico dalla testa equina, l’uomo che una sola cosa traeva in salvo dagli incendi. L’autoritratto di Leonor Fini, per lui più che opera dipinta elemento stesso di vita, o meglio ancora parte ormai della sua vita, lasciava Milano e io ero con lui. Lo accompagnavo in un viaggio breve e difficile sul lago di Como presso amici che gli avrebbero custodito la tela in luogo sicuro fuori dai pericoli della guerra.
Teneva stretto il quadro sotto il braccio, in una confezione varia di carte e di spaghi che denunciavano il panico e la premura di un’improvvisa partenza, quasi una fuga. Un pacco informe ove la geometria del telaio nascosto non si poteva più neanche supporre. Lo avrei voluto veder subito il quadro perché migliore occasione di una città in rovina non ci poteva  essere per gustare le sembianze di Leonor, ma questo mi fu concesso solo più tardi, a pomeriggio inoltrato quando, riparati sulle rive del lago, sedemmo assieme dietro la tranquilla darsena di una casa patrizia. Fu qui che cominciò a lacerare i fogli, a spezzare le funicelle che trattenevano il dipinto. M’apparvero da prima gli occhi di lei, vivi, nerissimi, ossessionati come gli occhi di un felino sorpreso innanzi al magnesio dei cacciatori.

Capii che era bene non essere impazienti. Volevo ora sorprendere il suo viso con movimenti lenti, scoprirlo col medesimo piacere che provano i monaci quando scalfiscono gli intonachi delle loro abbazie per ritrovare i visi gotici delle Madonne dipinte. Le mie mani strapparono altri frammenti di involucro. Vidi le narici che  ansimavano in una tensione di agguato, poi la sua bocca, quelle labbra che senza  disgiungersi parlano pronunziando enigmi. Ruppi ancora le carte sul collo, sui seni  che si delineavano tra le pieghe larghe di una acconciatura verdastra coronante  l’arco morbido delle spalle. Quando per ultimo i capelli elevati a criniera e la lunga mano flessuosa quasi pronta allo scatto completarono la figura di lei, io non ebbi più  indugio a considerare la donna che mi stava d’innanzi come l’ultima figura sopravvissuta alla mitologia e ancor libera per le terre del mondo in un irrequieto vagabondaggio senza soste.

Generata da una creatura ambigua come Dioniso, il più ambiguo fra gli dei, così  soltanto io potevo immaginarla, capirla ed ammetterla, lei creatura femminile tanto  differente, tanto più complessa ed esigente fra le altre del suo stesso sesso. Innanzi a  lei dipinta rimanevo perplesso e impaurito, nella medesima paura e perplessità dei  viaggiatori interrogati dalla Sfinge. Più guardavo più mi persuadevo della sua  natura, e più ancora mi era facile rendermi ragione del suo modo di operare i dipinti, con quell’indagine minuziosa che stabilisce immobilità alle cose e agli uomini  rappresentati in un’atmosfera ove ogni respiro pare impossibile tanto questa sa di  squallore, di solitario e di tristezza mortale. Guardavo il suo volto ed automaticamente  mi si rivelava il suo mondo; quelle immagini di adolescenti bellissimi soggiogati dall’influenza di antiche donne, assai abili nei segreti delle metamorfosi, nel complicato artificio del mutar l’uomo in animale mansueto, domato dal fascino e assopito nei languori. Mi era facile ricostruire gli avvenimenti consumati da secoli nella solitudine delle isole. E chiara anche si formava in me la sensazione che tutto il mondo elettivo di Leonor Fini, le chimere, le donne sfingi tutelanti il sonno inquieto di giovani nudi, le catastrofi marine che trascinano relitti arborei sulle spiagge deserte, l’ossessione delle criniere muliebri, i paludamenti stracciati pendenti da rami ischeletriti di vegetazioni defunte, che tutto questo altro non era, se non il ricordo della sua infanzia egea vissuta presso il perimetro dei labirinti. La sua pittura così esatta nel documentare gli avvenimenti di ere tramontate, così attenta nel porre in rilievo il lato melanconico e solitario della bellezza, la scelta stessa degli individui le cui sembianze armoniose essa andava ritraendo in coloriti pallidi, non potevano che confermarmi la tesi che formulavano in me da tempo.

Avevo il quadro fra le mani. L’ora avanzata, le tinte bituminose del lago vuoto di imbarcazioni, la vista sull’altra riva della tragica mole Pliniana, il suono di campane lontanissime, il viso del compagno fatto ancor più equino dal vento che gli scompigliava i capelli alti sulla fronte, tutto questo creava attorno alla tela una cornice disfatta che le luci ormai smorte del tramonto precoce ed il profumo snervante di certi fiori lacustri completavano di tinte ed odori. Avevo il quadro fra le mani e mentalmente continuavo il ragionamento sull’infanzia di Leonor Fini. La vedevo bambina dipingere innanzi ad un minuscolo cavalletto portatile l’astrusa generazione del Minotauro. Vedevo lei nello stesso costume delle donne cretesi intenta a macinare le terre per i dipinti. I verdi olivastri, le ocre bruciate, gli azzurri marini, che sono poi le tinte stesse dei vasi di Aghia Triada arabescati dagli artifici anonimi dell’Egeo. La sua prima esistenza passata fra quelle corti ove i riti crudeli si rendevan necessari per divinizzare l’uomo dalla testa di toro, dovette lasciare in lei impronte profonde, perturbatrici, e certo anche l’amore per le finzioni, per quei déguisements inusuali che ancora oggi essa va combinando non soltanto sul rettangolo delle pitture ma su sé medesima, quasi volesse con tali spettacoli mostrare agli esseri del nostro tempo ciò che ebbe modo di analizzare presso gli antichi delle corti mediterranee o innanzi le grotte di Calipso.

Consideravo i viaggi di Leonor Fini attraverso il tempo e le sue soste in quelle regioni ove i misteri fantastici si risuscitavano sulle memorie pagane. La vedevo nel laboratorio di Piero di Cosimo intenta a studiare i paesaggi che l’estroso maestro  fiorentino andava arricchendo con alberi favolosi, alberi dal profilo umano  all’ombra sterile dei quali la stanchezza degli dei feriti trovava momentaneo riposo.

Seguivo lei nei boschi della rinascenza per scoprire fra i tronchi l’immagine vegetale  di Dafne prigioniera in una corazza di foglie e di sterpi, la seguivo oltre il chiuso recinto ove la Circe di Dosso è intenta a disegnare sulla terra pentagoni stellari con  pennelli di fuoco. E mano a mano che il viaggio proseguiva nei tempi poetici, più  rendeva ragione degli amori della pittrice, della passione che ancora la muove  quando ritrova forme allarmanti, della sua perizia tecnica nello stemperare i colori e  nel comporli secondo i dettami dei maestri quattrocenteschi che per il gusto  d’inventar procedimenti cromatici perdevano il sonno. E mi rendevo inoltre ragione di quella sua illimitata vitalità che la spinge in un continuo vagare per le vie della terra come una sacerdotessa di miti segreti in cerca del tempio distrutto da riedificare; di quella sua prepotente vitalità che vuole contornarsi di elementi malati da risanare coi filtri semplici degli erborari.

Mi si rivelavano inoltre le predilezioni di Leonor, quella sua smania di rovesciar l’ordine consueto e seccante dell’uniformità, di rendere variato e piacevole e provocante il luogo delle sue soste, di lasciar al suo passaggio un alone di commenti spregiudicati e scandalistici simili alla scia di certi profumi che eccitano e promettono

il risveglio dei sensi assopiti. La tenerezza per i gatti, per l’animale prediletto nel cui occhio al pari delle pizie e dei saggi cinesi sa leggere avvenimenti ed ore; l’amore per i grandi gatti nei quali ritrova non lontane parentele alla sua celeste genitura. Il piacere della mensa, dei cibi distribuiti in ordine araldico sui piatti ovali che lei stessa inventa e presenta con trofei misti di elementi marini o minerali o vegetali secondo le occasioni o la presenza di chi la circonda nel rito.

Lo guardavo il quadro e capivo. Come mi era facile capire, quanto il mio ragionamento mi sembrava accessibile ed elementare! Ricostruivo la vita di lei, la pittura di lei, all’ombra cupa del lago presso la villa ionica illuminata dal riverbero delle magnolie.

Non avevo più la paura e la perplessità dei viaggiatori sorpresi dalla Sfinge, perché il mistero che per gli altri continuava era per me ormai sciolto. Come Edipo continuavo a guardare ed insieme continuavo a capire.

La donna dalla chioma leonina i cui occhi nel crepuscolo andavano dilatandosi in fosforescenze non sostava dal fissarmi come una viva creatura. Ne sostenevo a fatica lo sguardo. Quelle iridi dilatate dovevano conoscere i tenebrosi misteri del sogno e degli abissi. Attorno cadeva la notte, s’incupivano le sagome nere degli alberi confondendosi col cielo e coi riflessi del lago. Il suo sguardo ora non guardava me soltanto, sembrava impaziente di liberarsi dal vincolo della pittura, di uscire, di vagare per la valle come gli occhi luminosi degli uccelli notturni che dominano lo spettacolo della terra spenta, le grandi scene scomparse che agli uomini non è dato vedere.

F. Clerici, Incontro con Leonor Fini, in “Quadrante”, gennaio 1945.

courtesy Archivio Fabrizio Clerici, Roma